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per tutto. Adele, quella sera, lontana dal suo futuro, scuoteva la testa e mostrava, ora
l'uno, ora l'altro, gli orecchini a cuspide che le guarnivano i lobi.
«Vieni, chirurgo!» mi gridò.
Scavalcai con lo sguardo il muro di teste che avevo davanti e incontrai per un
attimo gli occhi di tua madre. Anche lei doveva essere almeno un bicchiere oltre la
soglia, gli occhi le luccicavano miopi. In ritardo si portò una mano sulla bocca per
catturare un piccolo sbadiglio. Difficilmente ballo, quasi sempre mi tengo ben
discosto dall'aggressione della musica a tutto volume. Ma se proprio capita, mi piazzo
nel mio metro quadrato e non mi sposto di lì. Chiusi gli occhi e cominciai a oscillare,
le braccia inanimate lungo i fianchi. La musica mi entrava dentro e ci rimaneva, cupa
come il suono del mare dentro una di quelle grosse conchiglie dall'esterno lucido
come smalto. Ne avevo vista una proprio così di recente. Dove? Ma sì, era lì, accanto
a un elefantino di giada, sul mobiletto dalla laccatura scrostata in casa di quella
donna. Me l'ero trovata più volte davanti, nel sudore degli occhi che solo a tratti
aprivo, quella conchiglia pacchiana... il ricciolo dell'imboccatura, rosa e liscio come il
sesso di una donna. Ora oscillavo con più tenacia, mi piegavo in avanti, molto in
avanti, poi tornavo su, buttavo la testa all'indietro. In alto il cielo traboccava di stelle,
un buio pieno di luce scordata come dopo uno spettacolo pirotecnico. Il bicchiere mi
era caduto di mano, sentivo il vetro sotto le scarpe. Mi sbilanciai e quasi precipitai
nelle braccia di Raffaella. «Stai attento, Timo, che io ti dico di sì!» e rise, fino alle
orecchie, e risero anche Livia e Manlio, che ora mi zompettava alle spalle cercando la
complicità di una bassetta con la faccia spiritata. Cinsi la larga vita di Raffaella e me
la trascinai dietro in un duetto traballante. Lei inciampava nel caffettano troppo
lungo, il suo ventre grasso gorgogliava contro il mio mentre la catapultavo tra la
folla. Balliamo, Raffaella. Balliamo. Tra pochi anni il tuo ventre sarà sotto le mie
mani, un pezzo di carne isolato tra i teli, e dal cuscino col marchio azzurro dell'unità
sanitaria mi dirai: «Peccato, ero finalmente dimagrita...» e scoppierai a piangere.
Ma adesso ridi, e balla, e dacci dentro! E ballo anch'io, Angela, nella samba dei
ricordi. Anch'io ignaro, come tutti. Come tua madre. Si era tolta le scarpe, ballava
tenendole in mano. Le piante si inarcavano, le dita indemoniate acciaccavano
l'impiantito come mosto. La musica era sotto i suoi piedi.
«Attenta, ho rotto un bicchiere.»
E svicolai dalla pedana dei danzanti.
Il giardino, sospeso su un'ampia terrazza, era gremito di piante esotiche
dall'aspetto temibile: alcune, altissime, presentavano nel gambo abnormi escrescenze,
e un fogliame aguzzo e rigido, altre erano costellate di aghi culminanti in una
infiorescenza polverosa. La luna scolorava il loro anemico pigmento con un'ulteriore
folata biancastra. Attraversavo il giardino e mi sembrava di passeggiare dentro una
colonia di fantasmi. Mi affacciai dalla staccionata. L'acqua era calmissima, di un
azzurro profondo. Guardai oltre, in fondo all'orizzonte, lo sgomento del mare nel
buio. Mio padre era morto, portato via per sempre. Era caduto per strada, un infarto.
E io non ero più un figlio. Il completo di lino chiaro, la faccia nel buio. Adesso
anch'io ero un fantasma. Tornai a voltarmi verso la festa. Spiavo, oltre il sipario di
quello spettrale giardino, i miei amici. Ci conoscevamo dai tempi fragili degli ideali,
delle barbette da stambecchi. Che cosa era cambiato? Lo spazio intorno a noi, quel
vento che ci sbatteva ovunque, quando abitavamo zone aperte. Un mattino avevamo
chiuso le finestre, la primavera finiva, il corpo di una rondine galleggiava nella
gronda. Di botto ritirati in noi stessi. La rasatura nello specchio e sotto la lama la
faccia dei nostri padri, la faccia di chi avevamo deriso. Eravamo cravatte nel mondo,
onorari, commercialisti, e discorsi che virano. Fino a quella sera, l'inverno passato,
sul divano della nuova casa di Manlio, un bel divano lungo da design. Avevo
cominciato misurando quello, e avevo scoperto che la sua casa era il doppio della
nostra, o era stata Elsa a farmelo notare? Partecipavo alla conversazione, buttavo giù
un goccio, Martine mi passava gli stuzzichini, parlavo, e con la coda dell'occhio
includevo Elsa. Seduta sul bracciolo, le gambe accavallate, mia moglie guardava
fuori. Non il cielo, no. Misurava i metri quadri del terrazzo affacciato sul fiume.
Senza accorgermene avevo alzato troppo il tono della voce, ero diventato aggressivo.
Manlio mi fissava stupito, la cravatta rossa di cachemire gli pencolava nel bicchiere
di cristallo. Di ritorno, in macchina, tua madre, con gli occhi sulle strade dove aveva
appena piovuto, diceva: «Scusa, quanto può guadagnare uno come Manlio?».
Farfugliai una cifra. Più tardi a casa, mentre pisciavo, mentre mi reggevo l'uccello,
piangevo. Avevo di colpo capito che eravamo diventati vecchi.
Invece adesso, stretto alla staccionata di quel giardino infernale, ridevo, ridevo
solo come un folle. In basso, nascosta dietro uno scoglio, la piccola Martine
pascolava beata, ubriaca.
In mezzo alla notte sono sveglio, guardo nel vano spalancato della finestra, lì
dove la palma fruscia le sue foglie scure. Tua madre dorme, il suo vestito cremisi è
sulla sedia. Una morsa di tensione mi afferra il braccio, e penetra in basso nel cuore
delle spalle. Infilo un gomito sotto il cuscino per sollevarmi un po', scalcio. Lei si
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